Antibo, l’ultimo dei mohicani: “Battevo gli africani, ora lotto contro l’epilessia”
Il siciliano e le vittorie epiche sui 5 e 10 mila metri: mai battuto dal 1988 al ‘91, poi la finale Mondiale e la comparsa del piccolo male che gli stronca la carriera.
Di piccolo c’è solo il male, di grande, anzi di grandissimo c’è Salvatore Antibo. C’è ancora tanta forza in questo siciliano capace di rivoluzionare il mezzofondo, renderlo spettacolare, con strappi, continui cambi passo, accelerazioni e volate batticuore. Vittorie epiche (su tutte l’oro nei 5000 metri agli Europei di Spalato, conquistato dopo essere finito a terra alla partenza), da ultimo dei mohicani, il solo in grado di sconfiggere gli atleti africani, di rimandare di qualche anno il loro regno incontrastato che dura dal 1991, da quando un avversario vigliacco si è infilato nella vita di Totò: gli ha azzannato i polpacci, lo ha trascinato in una sfida infinita. Ma Antibo non è tipo da mollare, nonostante le difficoltà evidenti che non nasconde, perché non c’è niente da vergognarsi. Combatte la battaglia a testa alta, come quando in pista viaggiava più rapido di un Frecciarossa e gli altri potevano solo prendergli il numero di targa. Se nella prima esistenza regalava emozioni a ogni secondo di gara (da questo punto di vista è stato il Pantani dell’atletica), nella seconda commuove per la voglia di restare a galla, di non affogare nel chiuso di una casa tra ricordi e rimpianti. Eccolo, Totò: sulla pista di Palermo dove tutto è iniziato, dove cronometro alla mano c’è ancora il prof Gaspare Polizzi, l’allenatore che lo ha strappato al calcio e lanciato verso l’Olimpo. Eccolo, Totò: segue con tutto l’amore che può avere un papà i primi passi del figlio Gabriele, 14 anni, con la storica divisa del Cus Palermo e tanta voglia di provare a seguire le orme paterne. Eccolo, Totò: trafitto da una crisi epilettica mentre parla con noi, piegato ma non spezzato. L’amore della moglie Stefania lo protegge nei 5’ di “assenza”, sguardo perso nel cielo siciliano. Poi, poco alla volta, ritorna a “correre”, a osservare Gabriele, a rispondere alle nostre domande, a farci rivivere la sua incredibile storia. “Giocavo a calcio nella squadra del mio paese, ero bravino. Con il compagno d’attacco ci chiamavano i gemelli del gol, come Pulici e Graziani. A 16 anni il destino cambia dopo una corsa campestre”.
Di piccolo c’è solo il male, di grande, anzi di grandissimo c’è Salvatore Antibo. C’è ancora tanta forza in questo siciliano capace di rivoluzionare il mezzofondo, renderlo spettacolare, con strappi, continui cambi passo, accelerazioni e volate batticuore. Vittorie epiche (su tutte l’oro nei 5000 metri agli Europei di Spalato, conquistato dopo essere finito a terra alla partenza), da ultimo dei mohicani, il solo in grado di sconfiggere gli atleti africani, di rimandare di qualche anno il loro regno incontrastato che dura dal 1991, da quando un avversario vigliacco si è infilato nella vita di Totò: gli ha azzannato i polpacci, lo ha trascinato in una sfida infinita. Ma Antibo non è tipo da mollare, nonostante le difficoltà evidenti che non nasconde, perché non c’è niente da vergognarsi. Combatte la battaglia a testa alta, come quando in pista viaggiava più rapido di un Frecciarossa e gli altri potevano solo prendergli il numero di targa. Se nella prima esistenza regalava emozioni a ogni secondo di gara (da questo punto di vista è stato il Pantani dell’atletica), nella seconda commuove per la voglia di restare a galla, di non affogare nel chiuso di una casa tra ricordi e rimpianti. Eccolo, Totò: sulla pista di Palermo dove tutto è iniziato, dove cronometro alla mano c’è ancora il prof Gaspare Polizzi, l’allenatore che lo ha strappato al calcio e lanciato verso l’Olimpo. Eccolo, Totò: segue con tutto l’amore che può avere un papà i primi passi del figlio Gabriele, 14 anni, con la storica divisa del Cus Palermo e tanta voglia di provare a seguire le orme paterne. Eccolo, Totò: trafitto da una crisi epilettica mentre parla con noi, piegato ma non spezzato. L’amore della moglie Stefania lo protegge nei 5’ di “assenza”, sguardo perso nel cielo siciliano. Poi, poco alla volta, ritorna a “correre”, a osservare Gabriele, a rispondere alle nostre domande, a farci rivivere la sua incredibile storia. “Giocavo a calcio nella squadra del mio paese, ero bravino. Con il compagno d’attacco ci chiamavano i gemelli del gol, come Pulici e Graziani. A 16 anni il destino cambia dopo una corsa campestre”.
In che modo?
“Ero al debutto, vinco facile. Allora la prof di educazione fisica mi dice che devo farle un favore: andare a Palermo da un allenatore che conosce. Presa la Terza media, avevo lasciato la scuola, ma la prof era sempre la prof. Quindi vado e chiedo: ‘Cerco Polizzi’. Si volta un signore alto: ‘Sono io. Dimmi’. Gli spiego chi ero. Mi fa: ‘Ti piace l’atletica?’. ‘No, gioco a calcio’, rispondo. Insomma, mi voleva rimandare indietro. Alla fine si convince a farmi fare il provino: un chilometro. Non sapevo nemmeno cosa fosse”.
Come è andata?
“Fermo il cronometro a 3’ e 1’’. Polizzi mi guarda stupito: ‘Scusa, non hai neppure l’affanno? Hai corso a questo ritmo, senza riscaldarti, con scarpe da passeggio e non sei stanco?’. Non lo ero, per me era naturale andare così forte. Allora mi chiese di fare un 2000, 5 giri di pista. Accetto con la promessa che poi potevo andarmene. Chiudo in 5’ e 56’’. All’arrivo lui insiste: ‘Ragazzino, tu non capisci: sei nato per l’atletica’. Rispondo: ‘No, grazie’. E me ne vado”.
Per cambiare idea cosa è accaduto?
“Passano 10 giorni, sono in piazza ad Altofonte. Un amico m’avvisa: ‘Totò, ti cerca un signore’. Guardo e vedo Polizzi. ‘Lei che ci fa qui?’, chiedo. ‘Ragazzino, tu sei potenzialmente un campione. Non posso perderti. Andiamo dai tuoi genitori’. Tanto ha brigato che li ha convinti”.
Lei perché ha accettato?
“L’ambiente trasmetteva energia positiva, ma la cosa determinate è stata quando ho capito che tutto dipendeva da me. Ero padrone del mio destino. Questo aspetto mi piaceva tantissimo”.
Madre natura le aveva dato un talento smisurato.
“Ma per arrivare a risultati importanti servono sacrifici e abnegazione. Per anni ho viaggiato in bus senza saltare mai un allenamento. Facendo vita regolare e mangiando le cose che dovevo. Se vuole le racconto qual è stato il mio sforzo maggiore…”.
Siamo qui apposta…
“Non le continue ripetute, per quanto mi prosciugassero ogni energia. Neppure i tanti ritiri per preparare al meglio la stagione. No, la cosa più dura era mangiare il fegato. Sì, ha capito bene: il fegato. Polizzi mi obbligava quando aumentavamo i carichi di lavoro in altura, al Sestriere. ‘Totò, ti serve…’. Mi faceva, anzi mi fa schifo. Però chiudevo gli occhi e ingurgitavo…”.
Andava in quota per ossigenarsi?
“Era l’unico modo per contrastare gli africani: vivono sugli altopiani, fin da piccoli percorrono chilometri. E stanno a 2000 metri. Ecco perché sono così resistenti. Noi passavano un mese d’estate al Sestriere e un altro d’inverno in Sudafrica”.
Era “l’africano bianco”: imbattuto per quasi 3 anni.
“C’era tanto lavoro, dietro. Non aspettavo, l’iniziativa la prendevo io. Ogni gara doveva essere uno spettacolo, il pubblico voleva questo”.
Alcune sue vittorie sono indimenticabili, ma l’oro sui 5000 a Spalato…
“La caduta alla partenza l’ha resa unica. Mi sono trovato faccia al tartan per una spinta. Quando ho realizzato il tutto, gli altri erano già a 60 metri da me. D’istinto volevo rientrare subito, forzando. Ma Polizzi a bordo pista mi ha urlato di seguire un ritmo costante. Aveva ragione. Hanno sfruttato male il vantaggio: una volta in gruppo li ho bruciati con facilità, bissando l’oro dei 10 mila”.
Altro trionfo storico nel 1989 in Coppa del Mondo: il solo italiano a riuscirci.
“Rappresentavo l’Europa, c’erano i migliori a Barcellona. Ma nel 1989 ero troppo in forma e non potevo fallire”.
Arrivò 2° all’Olimpiade di Seul nel 1988, poi perse di nuovo nel 1991 da Skah in una gara memorabile.
“In Corea ho fatto l’errore di non considerare Boutayed, il marocchino. Ero convinto che non reggesse quel ritmo e mi sono concentrato sui keniani Kimeli e Tanui, i favoriti della vigilia. Li ho bruciati all’ultimo giro, ma Boutayed mi ha preceduto di 2’’. Ha fatto la gara della vita. Dopo è sparito, le poche volte che l’ho incontrato ho vinto facile. Con Skah è un’altra storia: Polizzi non voleva che partecipassi a quel meeting di Oslo, avevamo caricato molto in vista del Mondiale in Giappone. Ma l’ingaggio era alto. E sono andato. ‘Arriverai quarto o quinto’, disse Polizzi. E invece c’è stata quella sfida, spettacolare: tutti la ricordano. Noi due a scattarci in faccia, poi affiancati fino all’ultima curva. Ne aveva più di me, ma senza i carichi…”.
Primo k.o. dopo quasi 3 anni, in mezzo solo trionfi e il record del mondo sfiorato a Helsinki nel ‘89.
“Meno di 3’’… Non trovai l’aiuto di nessuno, nel finale sperai che rientrasse Panetta, niente. Ma il record del mondo l’avevo eccome nelle gambe, bastava organizzare una gara con un paio di lepri. Mi chiedo spesso perché a Roma non ci hanno mai pensato. Sarei andato sotto i 27’. E comunque ancora oggi ho i record italiani sui 5000 e 10.000…”.
Ha citato Panetta: in quegli anni l’Italia dominava con Cova, Mei, Lambruschini e lei. Poi il buio. Perché?
“Per battere gli africani bisogna dare il massimo e vedo in giro poca voglia di fare sacrifici enormi. E poi ci vogliano motivazioni e una selezione naturale. Lasciai la polizia e un posto sicuro per tornare nel Cus Palermo. Una scelta dettata dal cuore, ma penso che dovrebbero esserci della regole per i corpi militari: se dopo 3 anni non porti dei risultati, esci”.
Nel 1991 a Tokyo lei è in testa nella finale mondiale dei 10.000, poi…
“Poi il piccolo male mi manda in tilt. Non ricordo nulla, non ho voluto mai rivederla quella gara. Negli spogliatoi non capivo, pensavo si dovesse ancora gareggiare. Polizzi mi spiegò: ‘Sei arrivato ultimo, Totò’. Le visite mediche confermarono: epilessia”.
Così all’improvviso?
“A 3 anni avevo sbattuto la testa: forte trauma con ematoma nella parte sinistra. Ma nessuno se ne accorse. Il piccolo male è rimasto in sonno, come un vulcano. Nel ‘90 ho avuto un incidente d’auto mentre ero con la mia ex fidanzata (la maratoneta Rosanna Munerotto, ndr), di nuovo un colpo al cranio. Lì si è risvegliato il piccolo male”.
Ha continuato ancora per un paio di stagioni.
“I dottori mi avevano tolto l’idoneità, piansi come un bambino. Li supplicai: decisero di ridarmela a patto che firmassi lo scarico di responsabilità e prendessi le medicine. I farmaci erano una mazzata, mi sentivo fiacco. Senza avrei vinto l’Olimpiade del 1992 a Barcellona e invece sono arrivato 4°, come nel 1984 a Los Angeles. Lì ero uno sprovveduto, corsi la finale coi piedi devastati dalle piaghe perché avevo commesso la fesseria di usare nelle batterie delle scarpe nuove”.
Senza l’epilessia sarebbe passato alla maratona?
“Quella era l’idea, avevamo fatto una prova a Milano nel 1991: feci la mezza in un’ora e 1’. Avrei potuto fare la differenza anche sui 42 chilometri”.
Cosa fa oggi Antibo?
“Vorrei seguire i ragazzi di Altofonte, da anni hanno promesso di fare una pista, ma niente. C’è il progetto, il terreno, mancano i soldi. Spero che si trovino. Magari può fare qualcosa il Coni, il presidente Malagò è una persona splendida, un galantuomo. Forse può aiutarmi. Non chiedo altro dalla vita: seguire i ragazzi, compreso mio figlio, e dargli qualche consiglio. So bene che il piccolo male mi tallonerà per sempre, ma almeno avrei uno scopo per tentare di staccarlo. Sarebbe la mia vittoria più grande”.
Francesco Ceniti
Fonte gazzetta.it